Le inchieste di Avvenire. Opg, dopo il rinvio mancano i progetti
6 GLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI
1.400 I MALATI OSPITATI
446 QUELLI DICHIARATI DIMISSIBILI
160 QUELLI REALMENTE PASSATI A CARICO DELLE RISPETTIVE ASL
Prorogata la chiusura di un anno, ma non si sa come intervenire.
Urgente passare dagli ospedali giudiziari a strutture più leggere
Ancora un anno di tempo. Dodici mesi per scrivere la parola fine sugli ospedali psichiatrici giudiziari. Un tempo supplementare chiesto dalla Regioni, in ritardo nel predisporre le strutture speciali per i circa 1.400 internati rinchiusi nei sei opg italiani. Ma in molti sperano che la proroga diventi l’occasione per riformare i dipartimenti di salute mentale e individuare nuovi percorsi di cura. A chiederlo, a qualche giorno dal decreto che ha spostato la chiusura dei manicomi criminali al primo aprile 2014, sono proprio gli addetti ai lavori. Il 31 marzo, data iniziale prevista per il superamento degli opg, nessuna Regione sarebbe stata in grado di prendersi in carico tutti i malati. Troppo A pochi i fondi e il personale sanitario, già sotto la scure della spending review.
E troppi i nuovi ingressi in opg, spesso pari al numero dei dimessi. Come a Castiglione delle Stiviere, dove nel 2012 sono uscite ed entrate 182 persone, o a Montelupo Fiorentino, con 25 dimissioni e altrettanti ingressi. Fa eccezione l’opg di Barcellona Pozzo di Gotto, su cui pende un sequestro sospeso fino a fine mese; qui si viaggia al ritmo di 120 dimessi l’anno e per i 148 ospiti rimasti sono pronte quattro strutture protette. La questione, però, non è il trasferimento degli internati da un istituto all’altro. La chiusura degli opg impone la «fine della cultura sulla salute mentale del passato», dice la responsabile del Forum Salute Mentale, Giovanna Del Giudice, con i territori "cenerentola" di cura. Il decreto, in realtà, sollecita le Regioni e la magistratura a individuare misure alternative all’internamento, potenziando i servizi sul territorio. Un orientamento che non considera «il loro indebolimento e gli accorpamenti di questi anni» e le condizioni di precariato degli operatori. Si utilizzi il tempo aggiuntivo, continua, per spostare il «focus dalle strutture speciali verso budget di cura individuali nella comunità, che favoriscano l’integrazione degli ex internati». Una proroga non è una buona notizia quando si parla di salute mentale. Significa che «per mesi delle persone continueranno a vivere in strutture inadeguate». Per il portavoce del Comitato Stopopg Stefano Cecconi, tuttavia, la soluzione non è costruirne di nuovi dove spostare «i folli autori di reati». La gran parte degli internati, difatti, può essere «affidata ai dipartimenti di salute mentale. Si usino perciò i 173 milioni previsti dalla legge per potenziare i servizi delle asl».
Aversa: «Nemmeno noi sappiamo cosa accadrà domani»
Lo dicono le mura alte, i cancelli e le grate a tutte le finestre: da qui è difficile uscire. Più delle barriere fisiche è il meccanismo giuridico, farraginoso e fuori dal tempo, a impedire alla libertà di prendere il volo. Puoi volare, ma non sai quando. Ieri uno dei 156 internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa "Filippo Saporito", giovane, non più di quarant’anni, con la barba e la voce strascicata e petulante, ripeteva: «Quando mi fate uscire? Quando mi fate uscire?», poi ha cominciato ad alzare la voce. Hanno gridato anche le guardie e lui si è calmato. Il fatto è che non lo sa nessuno quando uscirà. Potrebbe restare ad Aversa per tutta la vita.
C’è un uomo che è rinchiuso qui da 23 anni. Il codice penale è spicciolo e dispensa limbi di attesa e di sbarre: 2, 5 o 10 anni a seconda del reato commesso. Allo scadere del tempo se ne riparla. Ma se il recluso è ritenuto ancora pericoloso, la pena che non è pena e la cura che non è cura saranno prorogate per tanti anni ancora. E sempre ieri un altro recluso la libertà ha finito di assaporarla. Gli era stata riconosciuta dopo anni la "licenza finale di esperimento". La dizione dice tutto: l’affidamento a una comunità serve per appurare se davvero è in grado di muoversi libero tra la gente. È un esperimento. Dalla comunità si è però assentato. Al giudice ha detto che voleva andare a prendere un caffè. Lui non gli ha creduto e lo ha rispedito nell’ospedale, nello stesso reparto, nella stessa cella dal pavimento appiccicoso per il grasso accumulato. Esperimento fallito.
Quando è venuta qui, meno di un anno fa, la nuova direttrice, Elisabetta Palmieri, ha avuto in eredità una storia triste e spaventosa: una sfilza di suicidi e un paio di procedimenti in corso contro due guardie accusate (furono anche arrestate) di aver costretto un transessuale ad avere rapporti sessuali, e contro altre persone per aver fatto uso di letti di contenzione. Nel 2008 la Commissione europea per i diritti dell’ammalato in visita ad Aversa fece anche il conto di questi strumenti di vera tortura.
Il battesimo all’opg della direttrice Palmieri fu la morte di un recluso. Il suo compagno di cella gli diede fuoco con la bomboletta di un fornellino da campo. Da allora - decisione drastica - soltanto fornelli elettrici che possono essere utilizzati due ore al giorno. «La vigilanza - dice la direttrice - è massima. Me ne occupo personalmente, con continui controlli e ripetuti colloqui con i reclusi, così da prevenire azioni violente anche contro sé stessi». Il suicidio, appunto: «Non sono medico - dice - e non posso affermarlo con certezza, ma spesso la volontà suicida si matura in momenti di lucidità. Ad ogni modo, quale sia la molla, abbiamo formato un’equipe di prevenzione dei suicidi presente in ogni reparto con uno psicologo, uno psichiatra e un funzionario giuridico-pedagogico».
Le iniziative per dare un senso a una vita dietro le sbarre di ferro e dell’insanità mentale non mancano. Ci sono quelle dette in perfetto burocratichese "trattamentali": teatro, ippoterapia e art brut che si aggiungono ai corsi finanziati dall’Asl, i cosiddetti progetti terapeutici individualizzati. Mario, uno degli internati più anziani, è intento a colorare vasi fatti di cartapesta. È davvero bravo. «Il fatto stesso di portarli qui, fuori dal reparto - dice Angelo Russo, uno dei funzionari giuridico-terapeutico - è segno di una evoluzione». Indica Mario assorto a decorare un portamatite: «Quando si avverte la necessità di aprirsi, pur in una struttura chiusa, è segno dell’inizio di un percorso gradualizzato verso l’esterno».
La gran parte degli internati, spiega il responsabile sanitario, lo psichiatra Raffaello Liardo, è qui perché denunciata dalla famiglia per maltrattamenti: violenze che nascono da una sofferenza mentale. «Questo significa - dice Liardo - che anche quando viene meno la loro pericolosità e potrebbero uscire non hanno la famiglia disposta ad accoglierli, sicché con la carenza di strutture alternative, la libertà si allontana». Aversa, come gli altri cinque opg italiani chiuderà, - secondo la proroga - a fine aprile del 2014. Il primo termine, il 31 di questo mese, si è rivelato impossibile da rispettare perché le Regioni, chiamate ad offrire strutture alternative, non hanno mantenuto gli impegni. Negli opg destinati a scomparire, però, continuano ad arrivare ammalati, perché le norme del codice che dispongono l’internamento restano le stesse. Ad Aversa sono arrivati negli ultimi mesi anche pazienti di altre regioni, dalla Puglia e addirittura dalla Sicilia, per il sequestro dell’opg di Barcellona Pozzo di Gotto, con un disagio soprattutto per i familiari che per le visite sono costretti a lunghi viaggi.
Quest’anno in più dà un po’ di respiro a tutti. «È difficile operare - dice la direttrice Palmieri - in una situazione di incertezza. Nemmeno noi sappiamo che succederà domani». Cosa succederà domani ai Mario o ad Antonio che in questo luogo da dove è difficile uscire ha fatto entrare la poesia. Ci regala un suo verso: «La vita è un battito di cuore e un pensiero nella mente». Fa quasi il paio con la contessa Bellentani alla quale fu concesso di tenere qui un pianoforte e la sera scioglieva i nodi della sua follia nei notturni di Chopin.
Castiglione, l'istituto modello ha già un piano
di Francesca Gardenato
«Se da paziente mi chiedo cosa sarà di questo Opg e delle nostre sorti, è perché qualcosa di buono c’è, solo che va migliorato». Il punto di vista di Federica non si ferma qui, ma si libera in un suggerimento: «Dovrebbe essere aperto verso l’esterno e non chiuso al suo interno come adesso». Lei guarda avanti, forse anche perché è ospite di quella che è considerata una struttura modello, l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Attrezzato con 193 posti (ora però ci sono un centinaio di pazienti in più), immerso nel verde, non ha guardie carcerarie, ma solo medici, infermieri e operatori sociosanitari, oltre a psicologi, educatori e assistenti sociali. In tutto 170 persone.
«Appena conosciuto questo ospedale da dentro, è iniziata la fase professionale più gratificante della mia vita - racconta Anita Ledinski, che da otto anni lavora a Castiglione -. Questo non è solo un istituto penitenziario per persone affette da malattie psichiatriche che hanno commesso un reato, è una struttura che fornisce assistenza, terapie e un iter di riabilitazione che passa anche attraverso l’amore e la fiducia che ricevono, grazie agli operatori e a quanti con professionalità le seguono nel loro cammino, affrontando anche dei rischi».
Per la giustizia i 280 internati, tra cui un’ottantina di donne, sono incapaci di intendere e volere. Sono invece solo pazienti da assistere per gli operatori che, spiega lo psichiatra Antonino Calogero, direttore sanitario dell’Opg fino all’anno scorso, «devono funzionare da supporto "materno"», essere «in grado di aiutarli a ripristinare le parti bloccate da disperazione e annichilimento. Aiutano le persone che arrivano qui confuse e disorientate, nella cura del sé e in tutti gli aspetti più umani della vita quotidiana».
Una struttura modello non solo per il presente, ma anche per il futuro, visto che esiste già un’idea di come dovrà cambiare in vista della chiusura, slittata di un anno. «Si tratta di archiviare l’attuale assetto organizzativo basato su grandi reparti e di andare verso piccole strutture», spiega il direttore sanitario Ettore Straticò, preservando però «la professionalità del personale, che ha sempre lavorato ottimamente». L’ipotesi più realistica, chiosa il primario del reparto femminile Arcobaleno, Ettore Vernizzi, «consiste nel frazionare l’attuale Opg in sei comunità da non più di 20 posti letto ciascuna, di cui almeno una femminile. Credo che il "modello Castiglione" sia allo studio da parte di molte Regioni e Provincie autonome, a giudicare dalla numerose visite di esperti che stiamo ricevendo».
L’obiettivo, come ovvio, è di evitare che l’esperienza e la professionalità accumulate vadano disperse. Ma soprattutto la filosofia che guida gli operatori: coniugare nel tempo l’applicazione delle misure di sicurezza con la cura e il recupero del malato di mente, autore di reato, secondo un modello puramente sanitario. Da qui l’avvio di contatti con la Regione, sottolinea Straticò, per individuare «una serie di percorsi» che hanno permesso già di localizzare «le sedi dove spostare i pazienti». E consentire loro di proseguire il percorso di recupero personalizzato che punta al reinserimento lavorativo, abitativo e sociale. E per favorirlo gli internati fanno attività sportive (in palestra e piscina) e culturali frequentando l’atelier di pittura, la biblioteca e il cineforum o incontrando personaggi famosi. E il lunedì arriva anche il parrucchiere...
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