Rassegna Stampa
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di Maria Grazia Giannichedda
da Il Manifesto, 17 febbraio 2012
Non sono paragonabili il provvedimento che chiude i sei Opg e la Legge 180 che chiuse, nel 1978, gli ospedali psichiatrici civili. Per discutere seriamente del provvedimento sugli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) approvato col decreto carceri, è necessario spazzare via il trionfalismo con cui diversi quotidiani e notiziari lo hanno annunciato, facendo confusione su un punto cruciale: è vero che il decreto dispone la chiusura, entro marzo del prossimo anno, dei sei Opg attualmente in funzione; ma non è affatto vero che con questo provvedimento l’ospedale psichiatrico giudiziario viene abolito o soppresso o superato che dir si voglia. La differenza è tutt’altro che sottile. L’Opg non è solo un luogo, è un dispositivo solidamente ancorato al codice penale che ne definisce l’oggetto (l’infermo di mente autore di reato o il condannato che diventa infermo di mente), la forma (misura di sicurezza) e le funzioni (cura e custodia). E poiché il codice penale non si modifica per decreto tutto questo resta immutato. La differenza è che tra un anno potremmo non avere più poche grandi strutture dipendenti dal sistema penitenziario e con personale prevalentemente di custodia (i sei Opg) ma numerose strutture più piccole, dislocate nelle regioni, dipendenti dal servizio sanitario nazionale e con personale prevalentemente sanitario. Queste nuove strutture avranno però, sia chiaro, il medesimo compito dei vecchi Opg, ovvero assicurare cura e custodia in esecuzione della misura di sicurezza disposta dal magistrato. Questo è il punto, la ragione per cui non è corretto affermare, cosa che anche il decreto fa, che si dispone il “definitivo superamento degli Opg”: si dispone la definitiva chiusura di quelli esistenti, ma non si abolisce affatto l’istituzione, cioè la misura di sicurezza psichiatrica. Certo, il decreto affida al servizio sanitario le nuove strutture e dispone che vi sia all’esterno, se serve, una “attività perimetrale di sicurezza e vigilanza”. Ma questo escamotage, che sembra assegnare ai medici la cura e alle guardie la custodia, basterà a evitare porte chiuse, finestre blindate, telecamere a circuito chiuso, letti di contenzione, abuso di psicofarmaci, insomma tutti quei mezzi della cura/custodia che la psichiatria ha ereditato dall’era manicomiale? Difficile crederlo. Nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura che stanno negli ospedali generali non si è mai smesso di usarli questi mezzi, e lo si fa sempre di più in questi tempi di vacche magre: lo dicono le ricerche e i casi di persone morte nei letti di contenzione come Casu a Cagliari e Mastrogiovanni a Salerno, per citare i due più noti arrivati in tribunale. E se questo succede in strutture dove la legittimità della custodia è assai dubbia grazie alla Legge 180, come potrà non succedere in strutture che per legge devono amministrare una misura di sicurezza? Nessuna vicinanza dunque tra questo provvedimento che chiude i sei Opg e la Legge 180 che chiuse nel 1978 gli ospedali psichiatrici civili: quella riforma non si limitava alla chiusura degli ospedali ma ridefiniva lo statuto del malato di mente e i limiti del trattamento psichiatrico. La riforma dei codici penale e di procedura penale, che sola potrebbe davvero superare l’Opg, bisognerà invece aspettarla ancora, sperando che il nuovo provvedimento, e soprattutto il trionfalismo che lo ha accompagnato, non offrano l’ennesima scusa per rinviarla. Questo è infatti uno dei due pericoli su cui occorre vigilare, mentre l’altro è che questo decreto possa essere usato, dalle politiche psichiatriche e penitenziarie, per dare nuova legittimazione alla misura di sicurezza psichiatrica, e per promuovere e allargare il suo uso, magari ai tanti destabilizzati dal degrado delle carceri, oppure ai migranti senza riparo che finiscono nei servizi psichiatrici (sono soprattutto gli ingressi di detenuti e migranti che hanno fatto crescere negli ultimi due anni le presenze in Opg). Negli ultimi trent’anni invece l’uso di questa misura era stato contenuto, per cattive e buone ragioni, e nei sei Opg non vi erano mai stati più di un migliaio di internati in tutto contro i circa 1.500 attuali. Le cattive ragioni erano legate all’annoso degrado delle strutture, che fungeva da deterrente all’applicazione di questa misura; le buone ragioni erano da un lato il progressivo miglioramento nell’offerta di servizi di salute mentale e dall’altro l’egregio lavoro della Corte Costituzionale, che con una ventina di sentenze ha aperto importantissime brecce nel muro della misura di sicurezza, intervenendo sia sui percorsi di ingresso in Opg che su quelli di uscita. Due esempi, giusto per rendere l’idea. Due sentenze, la n. 253 del 2003 e la n. 367 del 2004, consentono al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, come gli arresti domiciliari in una struttura sanitaria normale, cioè non dedicata alle persone in misura di sicurezza, mentre una vecchia sentenza, la n.110 del 1975, aveva già stabilito la possibilità di revocare la misura di sicurezza prima del tempo minimo stabilito dalla legge. Se questa e altre possibilità offerte dalle sentenze della Corte fossero utilizzate dai dipartimenti di salute mentale, dai magistrati inquirenti e da quelli di sorveglianza, dagli istituti penitenziari - e questo accade ma troppo poco - le presenze in Opg si ridurrebbero a un terzo. Qualche anno fa, durante uno dei ciclici momenti di attenzione politica verso gli Opg, proprio su questo si era concentrata la discussione, sulla possibilità di svuotare gli Opg controllandone i canali di alimentazione. Su come si arriva in opg e sul perché è così difficile uscirne anche quando la legge lo consentirebbe, chi scrive aveva fatto all’epoca un’inchiesta (il manifesto 22 agosto e 3 settembre 2007) che mostrava come si trattasse di un problema squisitamente di “policy”, di governo cioè, di guida delle istituzioni pubbliche, per indicare loro dove andare, e come. Alcuni gesti di governo poi ci sono stati, il più importante è stato il decreto che organizzava il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni e risorse della sanità penitenziaria (Dpcm 1 aprile 2008 ), con il quale è cresciuta ancora la potenza di mezzi della macchina che potrebbe prosciugare gli Opg e aiutarci a capire a chi e perché e a quanti serve una misura di sicurezza psichiatrica. Ma nessuno si è messo alla guida di questa macchina che, come al solito, è entrata in funzione solo in alcune realtà locali, che hanno dimostrato che funziona, cioè che è possibile non inviare persone in Opg e far rientrare dentro una vita accettabile chi vi è finito. Nel frattempo sono arrivate le ispezioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la campagna per l’abolizione dell’Opg promossa da un ampio cartello di associazioni nazionali (www.stopopg.it), la denuncia autorevole della Commissione di inchiesta presieduta dal senatore Marino. Tutto questo poteva essere diretto verso l’applicazione della “riforma strisciante” realizzata dalla Corte Costituzionale, e verso la moltiplicazione delle esperienze che hanno mostrato di funzionare. E invece è arrivato l’emendamento che chiude i sei Opg consegnando alle regioni 120 milioni di euro per il 2012 e i 60 per il 2013 (ma saranno poi veri?) per la realizzazione e la riconversione delle strutture, e 36 milioni per gli oneri di gestione del primo anno. Come si potrà evitare che si moltiplichino gli Opg?
RASSEGNA STAMPA
L'Unita del 13 febbraio 2012 pubblica:
l'intervista al Senatore Ignazio Marino dal titolo "Nessun internato sarà più torturato. Chiudere gli OPG è sacrosanto."
L'articolo di Toni Jop "Giustizia: psichiatri in Rete contro la legge che chiude i manicomi" con l'intervista a Franco Rotelli
in Allegato
La Repubblica Addio manicomi giudiziari. Da oggi 1000 detenuti in cerca di una seconda vita. di Alberto Custodero
di Roberto Loddo
E’ nei dettagli che il diavolo nasconde la sua coda. Il 25 gennaio, proprio alla vigilia della riunione del comitato nazionale “Stop Opg”, il Senato approva il Decreto Carceri, e con l’emendamento presentato da “Ignazio Marino e altri senatori” finalmente viene fissato un termine, marzo 2013, per applicare le leggi sulla chiusura degli attuali Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Comunque lo si giudichi, l’emendamento approvato dal Senato, se diventerà legge, purtroppo non abolirà gli Opg. Li moltiplica. Ma il lavoro condotto dal Senatore Marino non è stato inutile. Alla commissione parlamentare per l’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale e ai senatori firmatari dell’emendamento va comunque il merito di aver acceso i riflettori su una vicenda che rischiava di essere sepolta come le persone internate. Grazie anche al monito del Presidente della Repubblica, alle sanzioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e all’attenzione mediatica di importanti trasmissioni televisive d’inchiesta. Nessuno può più dire di non sapere. L’orrore, oggi è sotto gli occhi di tutti. E tutti sanno che gli Opg non sono né ospedali, né luoghi di cura. Sono luoghi di morte, privazione e sofferenza in cui le persone vengono imprigionate sulla base di una obsoleta concezione della malattia mentale. Un’ottica di riduzione del danno parrebbe ispirare la logica politica dell’emendamento approvato, che forse, trasformerà gli Opg in qualcosa di meno orribile, con strutture meno fatiscenti, ma pur sempre luoghi di segregazione, reclusione e internamento. Il rischio è che ora al posto dei 6 Opg, nascano 20 mini Opg, privati. Magari uno in ogni regione e magari qualcuno anche in Sardegna. Non basta, infatti, cambiare il vestito agli Opg, è necessario agire su due livelli. A livello nazionale, perché il parlamento abolisca alla radice l’istituto giuridico dell’Opg e modifichi le modalità di internamento delle persone (articoli 88 e 89 del codice penale). E a livello territoriale, su quei dipartimenti di salute mentale incapaci di prendersi cura di questi cittadini e responsabili dell’invio delle persone negli Opg. Le risorse finanziarie utilizzate per segregare e torturare queste persone potrebbero essere utilizzate per offrire ad ognuno di loro un percorso di accoglienza, cura, assistenza e inclusione sociale nel proprio territorio. Proprio come rivendicato dalla campagna “Un volto, Un nome” lanciata dal comitato sardo “Stop Opg” che chiede alla Regione Sardegna, alle Asl e i Dipartimenti di Salute Mentale, di mobilitarsi per assistere e curare i nostri cittadini sardi internati. Per evitare che il loro ritorno avvenga attraverso la costruzione di “piccoli manicomi” mascherati da strutture terapeutiche. Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono? Michel Foucault avrebbe dovuto porre questa domanda ai nostri attuali legislatori. In questi anni abbiamo assistito a una vera e propria trasformazione dello Stato di diritto, risvegliandoci in un sistema della giustizia che non giudica più i fatti ma le persone, la loro storia familiare e le loro condizioni di vita. Una giustizia che sacrifica le persone in nome della paura, del pregiudizio e dell’ignoranza. Complice anche un codice penale che è un residuo del regime fascista e che permette una scandalosa connessione tra sofferenza mentale e pericolosità sociale. Gli internati appartengono tutti a una categoria sociale: sono poveri. Sono persone a cui è stato tolto il diritto all’espiazione della pena in nome della prevenzione della loro pericolosità. Il fondamento giuridico di questa famigerata “misura di sicurezza” si basa sulla privazione della libertà a tempo indeterminato, perché non si è in grado di “intendere e di volere”. Una sanzione che assomiglia a una tortura “eterna”, immaginata per prevenire comportamenti che la persona dovrebbe attuare in un determinato futuro. Non mi interessa ciò che hai fatto, mi interessa ciò che potresti fare. Una mostruosità giuridica, perché la pericolosità sociale non ha nessuna valenza scientifica ed è un’ipotesi indimostrabile. E se fosse la nostra società ad essere socialmente pericolosa e priva di senso?
L'Articolo su www.manifestosardo.org
da Unità Toscana del 14 luglio 2011
In 140 dentro l'istituto dove scarseggiano gli educatori, guardie e soprattutto medici ma in una cella di pochi metri quadri devono convivere anche 7 persone. Tra sguardi persi, dita ingiallite dal fumo e giornate trascorse a dormire e a sognare di tornare a casa.
di Umberto Veronesi Direttore Scientifico Istituto Europeo di Oncologia, Milano
I MANICOMI GIUDIZIARI? SONO LAGER DIMENTICATI
Venticinque associazioni hanno lanciato una campagna per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. si riuscirà ad abolire Questi luoghi in cui gli internati vivono in condizioni disumane? Ermanno F., Arezzo
Quando l’anno scorso la Commissione d’inchiesta del Senato, presieduta da Ignazio Marino, rese nota l’indagine effettuata nei sei ospedali psichiatrici giudiziari, fu un vero choc: malati nudi legati al letto e lasciati tra gli escrementi, pochissime cure mediche, grande uso dei farmaci neurolettici che hanno in pratica sostituito la camicia di forza. Sui circa 1.300 ricoverati tenuti in queste condizioni disumane, più di un quarto avrebbe potuto essere dimesso subito, perché costoro avevano scontato la pena ed erano stati giudicati «non più socialmente pericolosi». E invece sono ancora lì, e tutti gli altri non progrediscono verso un recupero, ma affondano nella degradazione. Le dimissioni continuano a essere spostate arbitrariamente, tanto che si parlò, giustamente, di “ergastoli bianchi”. Ebbene, io credo proprio che sia arrivato il momento di dire basta, e spero che la mobilitazione in corso (alle 25 Associazioni coinvolte continuano ad aggiungersene altre) sia il segno che l’opinione pubblica si è risvegliata, e non è più disposta a tollerare ritardi e giustificazioni. Di giustificazioni non ce ne sono. È del 2008 un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri che prevedeva il trasferimento degli ospedali giudiziari dal ministero della Giustizia a quello della Salute, richiesta che avevo già avanzato io stesso nel 2001, quando ero ministro. Sono stati stanziati fondi alle Regioni, perché prendano in carico il reinserimento sociale di queste persone e approntino strutture di sostegno, ambulatori, appartamenti protetti. Insomma: è ora di sondare a fondo la questione, di constatare se si è ottemperato alle richieste. A questo punto, è tragica ironia chiamare “ospedali” questi luoghi ai quali la società affida l’unico compito di segregare gli indesiderabili. Ed è pura vergogna per i medici e la scienza medica non rifiutarsi di prestare la propria opera in queste condizioni, senza quasi per nulla curare. E infine, affianchiamo tutti questo movimento di dignità e di umanità: come recita lo slogan della campagna, «è pazzia non occuparsene».
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